PAUL E CECILE avevano girato la città secondo tappe prestabilite, con la piantina stretta sotto il braccio della loro curiosità e quella sera, l’ultima del loro breve soggiorno petroniano, avevano deciso di cenare in una trattoria storica del centro di Bologna, che aveva incuriosito il loro palato durante la passeggiata pomeridiana.
SULLA PORTA li aveva accolti l’anziano gestore che, con la consueta gentilezza che da sempre aveva contraddistinto la sua onesta carriera da “Oste della malora”, aveva srotolato un sorriso a molti meno dei canonici trentadue denti, che non riusciva a nascondere una vita tra i tavoli fatta di migliaia di assaggi di sughi, di milioni di dolci mangiati a notte fonda e di miliardi di bicchieri di vino rosso tracannati senza pensarci troppo. Vista la cordialità del loro interlocutore dal grembiule nero a pois di pomodoro passato, Paul, in un italiano arrugginito imparato in gioventù, aveva decantato le meraviglie di quella città senza affanni che aveva appena ammirato; era partito dai suoi portici confortevoli, passando per quella piazza che riusciva a essere nello stesso tempo essenziale e incantevole, per arrivare alle torri, alle chiese, alle statue, fino alla Madonna di San Luca, che avevano notato già da lassù, quando, col naso appiccicato all’oblò, planando verso il Marconi con un volo low cost partito da Bruxelles, che era costato come il transfer per l’albergo, avevano scorto quella cupola che pareva un punto cardinale a far da bussola a quella marea di tetti rossi.
MA ERA la vivibilità di Bologna che li aveva impressionati, tanto che, mentre lo ascoltava, a Cecile brillavano gli occhi. Così, attratto da quella lingua molto simile al suo dialetto, l’esperto ristoratore aveva preso la parola e si era tramutato di colpo in un improvvisato sociologo. Aveva raccontato loro di una Bologna che non era più quella di una volta, più triste, più spenta, meno accogliente, meno grassa e meno dotta. “Si esce poco la sera, compreso quand’è festa”, aveva canticchiato placido, spiegando loro che i bolognesi erano arrabbiatissimi, ma non sapevano neanche loro con chi e soprattutto perché, impegnati a lamentarsi e basta, senza trovare soluzioni, senza nemmeno cercarle, distratti a fare altro, sempre di fretta, con la macchina in quarta fila parcheggiata davanti al loro senso civico.
“LA FRENESIA oggi ha preso il posto di tutto, della fantasia, dello stare ad ascoltare, anche solo del perdersi a guardarsi intorno. Ai miei tempi, quando c’era qualcosa che non ci andava bene, noialtri andavamo in piazza. Oggi si va su facebook. E la colpa è sempre degli altri. Del sindaco per esempio, che dei bolognesi c’ha capito pochino e continua a vietare, a sparare nel mucchio alla rinfusa; degli ausiliari del traffico, che hanno perso per le strade della città il significato della frase “chiudere un occhio”; del degrado e di chi lo permette, che poi vai a vedere tra chi punta l’indice, c’è anche chi intasa i suoi novanta metri di casa in affitto con dodici fuori sede ammassati uno sull’altro, che il primo bagno che trovano pulito è la colonna di quel portico qui. E tu caro turista belga, ti sorprendi e mi chiedi “Pourquoi?”. Xa vut c’a seva me? Io conosco la ricetta per fare un gran ragù, mica per amministrare bene. Io so che questa è una città fenomenale, ma noi non ce ne rendiamo più conto. Vorrei che fosse amata e rispettata come merita e siamo noi che dovremmo dare il buon esempio. Siamo noi che siamo cambiati, mica lei. Lei è ancora quella vecchia signora che fu contadina che ci ha fatto innamorare.”
PAUL E CECILE avevano sorriso, dando poco peso a quelle parole. Poi se ne erano andati, non prima di aver pagato un conto molto più salato della loro saporitissima tagliatella, con una ricevuta che di fiscale aveva solo il dettaglio delle vivande ordinate. La mattina seguente sarebbero ripartiti. Avevano conosciuto un posto straordinario, abitato da gente che, forse, l’aveva dimenticato.
Il racconto è molto nostalgico e sembra scritto da uno con venti/trent’anni sul groppone in più di quelli dell'”artista bolognese” che ne è l’autore. Concordo su tutto e mi inserisco anch’io nella corrente di pensiero di coloro che vorrebbero una città viva e che rispecchiasse, nell’animo dei cittadini,, le pretese che l’architettura degli avi ci hanno lasciato. Non è più la stessa Bologna. ma, forse, ogni ventennio si porta via questa considerazione e le scoperte tecnologiche donano meno fatica, meno pensieri ma anche (ahimè) meno voglia di pensare e di essere protagonisti. Da fan di Filippo (Fortitudo a parte) mi permetto di dire che lui è in grado di fare molto di più ma che il racconto rispecchia quello che sembra il suo animo di quando scrive che non è molto allegro, devo dire che gli spunti ironiche ,tipo l’osservazione dei denti rimasti all’oste e il conto sproporzionato rispetto alla cortesia e alla bontà del mangiare rispecchiano molto di più il suo modo di scrivere che è emozionale. Non ci credete? E allora leggetevi “Intanto Dustin Hoffmann non fa più un film” e “Forse in Paradiso incontro John Belushi” (almeno che non l’abbiate già fatto) e scoprirete genialità a balus (tanto per rimanere in clima felsineo)