Da Il derby spaccacuore di lagiornatatipo.it
Ritrovare il derby dopo sette anni sarà come incontrare un vecchio amico dopo tanto tempo. Non sarà difficile riconoscerlo tra la folla: avrà forse i capelli ingrigiti, la pancia cresciuta, ma sarà sempre lui, questo l’abbiamo ormai capito tutti. I giornali ne parlano da mesi, la città lo aspetta: c’è fermento, c’è curiosità, c’è qualcosa che frizza nell’aria. Noi bolognesi, che organizziamo la notte di capodanno il pomeriggio del 31 e prenotiamo le ferie d’agosto a fine luglio, ci siamo messi in agenda questa data con largo anticipo, annotandoci i numeri di parenti e amici che ci sarebbero stati utili alla voce “bazze per il derby”.
Io ho voglia di rivederlo e mi sarà sufficiente entrare là dentro e accodarmi al primo coro per avvertire quell’inconfondibile fitta allo stomaco, mentre i battiti del cuore prenderanno la loro strada dissestata di sempre. Insomma, non mi ci vorrà più del primo mezzo giro di ruota per realizzare che quel sano e spontaneo odio sportivo che mi lega ai miei concittadini dell’altra sponda non è stato scalfito dal trascorrere inesorabile del tempo.
Ci conosciamo da troppo, io e il derby, per far finta che non sia così. Già dalla prima volta che ci siamo incontrati ci siamo parlati chiaro: io gli ho detto come stavano le cose e lui ha fatto altrettanto. Lo ricordo bene quel momento: giocavano in casa loro, anche se il palazzo era ancora lo stesso. Vedevo quella gente così sobria, percepivo quel loro senso di superiorità, quel bisogno di tradizione e scuotevo la testa sereno. Il tizio coi baffi che suonava l’organo, le signore impellicciate che sfilavano in parterre dietro mariti ritardatari che non si sarebbero alzati dalla sedia se non sopra di venti, i ragazzi con il Moncler e le scarpe costose che giravano l’anello lassù: più li osservavo e più rimanevo colpito da altro, da quei settecento indomiti che avevo intorno, che puzzavano di ascelle, di fumo e di gioia, che cantavano a squarciagola soprattutto quando andavano sotto. Io mi sentivo come loro, beffardamente menefreghista, misteriosamente distaccato dal risultato finale, perseverante nonostante tutto. Sono profumi d’infanzia indelebili, immagini a colori sbiaditi che conservo in un angolo spazioso della mia mente, flash che hanno scandito le fasi della mia vita come puntine da disegno fissate nella memoria.
Bologna è cambiata da allora. Ma non solo lei. E’ cambiata la società, il mondo intero, travolto da paure, sogni e comodità tecnologiche fastidiose. A me Bologna sembra sempre bellissima, coi suoi soliti tramonti dietro la collina, il suo Gigante di lato nella piazza, il suo Natale rassicurante tra bancarelle illuminate e tortellini fatti come si deve. E, finalmente, di nuovo, col suo derby.
Dicono che il tempo sia la quarta dimensione della nostra epoca, affievolito delle sue ataviche caratteristiche di relatività. Oggi tutto è frenetico e si viaggia a una velocità doppia rispetto al passato, anche recente. Una volta ti sposavi presto e i mobili li sceglievi perché ti durassero una vita. Oggi compri un divano all’Ikea e tre anni dopo sei daccapo, un maglione di Zara lo metti mezzo inverno e un aggeggio qualsiasi da 99 centesimi in quattro minuti è rotto. Proprio per questo, sette anni senza derby sono un’eternità, una punizione eccessiva per tutti, giovanissimi in primis, che lo conoscono solo per sentito dire, come un’entità lontana e quasi mitologica, sulla quale i vecchi del villaggio tramandano leggende di ogni tipo; ma soprattutto, lo è per noi fortitudini cresciuti con lui, che storicamente lo aspettavamo come unico evento in grado di raddrizzare una stagione disgraziata. Per noi è stata una mancanza a tratti asfissiante, perché non giocarlo significava semplicemente non esserci.
Ho letto di recente che Messina, uno dei nostri nemici più fieri, ha dichiarato che il derby non gli è mancato. Bravo Ettore, hai vinto un frigobar. Vai a raccontarlo a Los Angeles o a Mosca, dove in questi anni le ciotole non le hanno riempite con il pane e acqua delle nostre parti. Qui c’è gente che ha sofferto, che è rimasta senza squadra per tre anni, cosa mai successa a nessuna tifoseria nella storia dello sport mondiale. Che è sopravvissuta al vilipendio, che ha superato le umiliazioni di quel signore con le borse sotto gli occhi che pagava a video, che è rimasta in piedi pure al disastro successivo di chi ha cercato di metterci una pezza prendendo una scorciatoia che conduceva al baratro. Qui c’è gente che la domenica pomeriggio la passava a Santarcangelo di Romagna a inseguire una speranza, non a Santa Monica. Solo per questo, per costoro, il ritorno del derby sarà una festa, perché loro hanno già vinto. E sarà una festa doppia, perché sarà il primo storico, indimenticabile derby di A2.
Lo scrivo senza ironia e lo dissi anche in tempi non sospetti: retrocedere, per la Virtus, non sarebbe stato così catastrofico. Abbandonare un’A1 priva di fascino, piena di americani sconosciuti sempre con la valigia in mano, ripartire da un campionato più facile dove il numero delle vittorie (per loro indispensabile) sarebbe aumentato, affezionarsi a un gruppo di giovani in cui identificarsi e, anzi soprattutto, invadere il territorio altrui e ritrovare la stracittadina, erano le premesse di una rinascita scontata. E anche se nessuno si aspettava una partenza così folgorante, la loro grande forza è stata quella di arrivarci dentro binari che corrono paralleli alla loro storia: loro sono favoriti e noi ci proviamo. E’ l’ennesima dimostrazione che nulla è cambiato, alla faccia dei pronostici estivi, ed è probabilmente questa la cosa più difficile da digerire per noi, che vediamo la nostra squadra presentarsi a questo appuntamento senza le facce giuste e il cuore grande del gruppo dell’anno scorso. Ma così è andata e così sia, anche se un’ammissione di colpa riguardo a questa scelta ogni tanto non sarebbe sgradita.
Noi parteciperemo a questo derby comunque, come abbiamo sempre fatto, che sarà sarà. Saremo al gran completo sui gradoni di quello stramaledetto palazzo, che ci fa fare il giro largo per arrivare da Leroy Merlin pur di evitarne il contatto visivo, e che anche durante un concerto dei Cure ci fa ripensare mestamente a quel tiro sciagurato di quasi vent’anni fa. Io mi ci immagino già dentro, percepisco il rumore dei tamburi e lo sventolio delle bandiere, sento i ragazzi che cantano, lo stomaco che si stringe e il cuore che aumenta i battiti.
Finalmente il derby.
Mi sei mancato, vecchio amico.