Fermo al margine della strada, con il motorino ancora acceso, guardavo Giacomo correre affannato da una cartella più grande di lui verso la porta della scuola. Una bidella già scocciata stava per chiuderla, mentre lui accelerava per quanto potesse. Maddy si era svegliata prima di tutti ed era uscita in fretta per acciuffare una metropolitana che l’avrebbe portata dall’altra parte della città, rispettando i tempi tiranni di un capo scrupoloso, ma non prima di aver lasciato sulla tavola di cucina un’abbondante colazione per due; io e Jack avevamo rubato mezzora alla sveglia per affrontare la prima parte della mattinata insieme: un the con i biscotti, un lavandino con un rasoio e due spazzolini e una corsa con due caschi per la volata finale, prima tappa scuola, seconda ufficio. Era il mio terzo giorno di lavoro finita la convalescenza.
Roma era sempre lei, eterna, bellissima ed elegante, con i capelli un po’ scompigliati da un vento fastidioso che sapeva più di autunno che di fine estate, ma che la rendeva ancor più affascinante. La storia del mondo ferma a ogni suo angolo era esaltata da quel cielo pulito, rinvigorita da quell’aria rarefatta che la slanciava e le dava duemila anni di meno.
Era settembre, il mese più importante dell’anno.
I “Giochi di settembre” erano fondamentali da sempre. A settembre ci si giocava tanto, era un periodo di grandi novità paradossalmente abitudinarie: si rientrava disillusi dalle vacanze, si mettevano le basi per l’inverno, si provava a mettere in atto i buoni propositi fuoriusciti da una pausa rigenerante e meditativa. In poche parole, si impostava l’anno intero, altroché il primo gennaio. Da ragazzo decidevo tutto li’, a settembre: se era ora di cambiare qualcosa, se uscire seriamente con una ragazza, se iscrivermi in palestra, se lavorare di più, chi comprare al fantacalcio.
Quel settembre non faceva eccezione, anzi. L’esperienza vissuta a braccetto con persone un tempo care e poi nemiche, mi aveva aperto spiragli importanti. E io avevo deciso che era tempo di scelte. Avevo deciso che qualcosa era da cambiare. Avevo deciso che forse quelle persone diventate nemiche era ora di farle tornare care. Avevo deciso che un po’ di serenità riguardo le mie precedenti vicissitudini familiari dovevo per forza trovarla. Anzi, volente o nolente, l’avevo già trovata. Anche perché ne era successa una grossa davvero. La più pazzesca di quella storia eccezionale. Tanto che, appena compresi che la realtà era così diversa da quella che mi ero dipinto sulla personalissima tela della mia mente, per poco non mi prese un colpo.
La mia testa era ancora ricamata da una parte all’altra come la cerniera di un trolley da viaggio, anche se il cuoio capelluto che lentamente cominciava a ributtare come un campo da calcio di periferia appena riseminato, nascondeva in parte quello squarcio da Frankestein Junior.
Mi avevano detto che l’impatto all’altezza di Occhiobello era stato davvero terribile e che, per fortuna mia e della mia famiglia che era a bordo con me, il guardrail aveva resistito, nessuno sapeva spiegarsi come. Forse era stata la mano di Dio che aveva acciuffato la mia auto per i capelli o forse era stato proprio John Blutarsky, impavido componente del Gruppo Delta, che da lassù l’aveva tenuta stretta, impietosito di fronte all’imminente trapasso di un suo fan.
Di sicuro lo zampino ce l’aveva messo Pietro, almeno da quello che mi aveva raccontato Maddy al mio risveglio.
In seguito al nostro fortuito incontro all’autogrill e dopo l’inizio della mia scriteriata fuga infatti, Il camion della sua ditta edile (che doveva portare lui e i suoi tre suoi giovani operai di origine slava in un un cantiere nel Veneziano di prima mattina) stava percorrendo ad una andatura pressoché normale la nostra stessa autostrada. E per fortuna nessuno inseguiva nessun altro, nessuno correva, nessuno a parte me. C’era un uomo solo al comando.
Dopo lo schianto, il primo veicolo a frenare fu il suo. Era proprio dietro di noi. Nonostante la diversa velocità delle due vetture, nonostante la mia fosse partita in fretta e furia tipo uscita dai box dopo un pit stop di formula uno, la sua ci aveva raggiunto proprio a causa di quella prolungata sosta in quella piazzola deserta (anzi, più che a causa meglio dire grazie, dato che, vista dopo, ci aveva salvato la vita). Pietro scese subito dal furgone e, con abile mossa, riuscì ad ancorare il suo potente traino al parafango della nostra Punto in bilico tra l’asfalto e la morte, evitando che volasse nel vuoto. Dallo scheletro di quella Fiat bianca ne estrasse i corpi miracolosamente illesi di Maddalena e Giacomo, mentre per sbloccare la mia testa maciullata dentro al volante, dovette aspettare l’intervento dei vigili del fuoco. Dopo un ricovero di pronto soccorso a Ferrara, fui trasportato d’urgenza all’ospedale Rizzoli, dove rimasi diversi giorni in uno stato di coma profondo.
Riaprii gli occhi solo grazie a un’operazione di sei ore, compiuta da mani amiche nel più importante ospedale di Dublino. Quando ricominciai a mettere a fuoco le immagini circostanti, c’era soltanto Maddalena con me. Mi spiego’ la cronologia degli eventi, dov’ero, cos’era successo. Mi disse che aveva fatto tutto mio fratello, facendomi così intuire – parlando cioè’ esplicitamente di Pietro come del mio gemello – che qualcuno le aveva già rivelato le mie passate e tormentate vicende. Fu un primo motivo di grande sollievo, rafforzato dal fatto di sapere che non avevo causato danni ne’ a lei ne’ a Jack. Mi racconto’ che al mio “capezzale” erano accorsi in tanti. E così in quell’occasione, da consuetudine per una volta invertita, un elenco preciso me lo snocciolo’ lei, quello delle persone che erano state al mio fianco durante il periodo di degenza a Bologna. Oltre a Pietro con Silvia e Federico, ovviamente i miei genitori, soprattutto mia madre, che era stata particolarmente presente: mi aveva sussurrato di continuo cose dolci all’orecchio, senza mollare per un secondo la presa fredda della mia mano. Del suo incontro con Giacomo nel corridoio principale dell’atrio del Rizzoli, Maddy mi disse sorridendo che nessuno degli infermieri presenti se lo sarebbe più dimenticato, tanta era stata l’emozione.
E poi gli altri: Bunny, Mario Gandolfi detto il Rosso, Gigi e Messiallaroma in trasferta dalla capitale, il sig. Marcello da Padova via Jesolo, addirittura i dipendenti slavi di Pietro (“tra i quali ce n’era uno spiccicato al tuo idolo, quello cicciotto dei Blues Brothers…”, ridacchio’ lei); anche parecchi conoscenti dei miei che si erano fatti vivi, tra cui i Marani e persino Franco, il barista del circolo in cui mio padre era solito giocare a carte.
Tutti mi erano stati vicini, anche se parevo spacciato; finche’ Pietro, in un’intuizione che in seguito apparve più logica che geniale, aveva deciso che l’unica chance per farmi riprendere fosse quella di portarmi in Irlanda da Ale. Aveva fatto davvero tutto lui, mi aveva condotto perfino la’, prima di tornarsene in Italia per motivi di lavoro, dopo il buon esito dell’intervento, ma prima che io riprendessi contatto con il mondo.
Al resto ci aveva pensato la mia testa, che, prima di rimettersi a posto, aveva imbastito quella strana storia di misfatti e di amicizia. Evidentemente, con un grandioso lavoro a meta’ tra la fantasia e l’inconscio, aveva assorbito ciò che gli girava intorno: aveva fatto filtrare tra le mie palpebre chiuse le immagini che mi scorrevano davanti e aveva fatto entrare dalla porta di servizio delle mie orecchie spente le voci che mi ronzavano intorno; quindi le aveva condotte al mio cervello fracassato. Poi, ci aveva pensato lui a mischiare il tutto come un Pastamatic, a fare dei copia e incolla di quelle informazioni deragliate neanche fossi dentro a un programma di Word affetto da un virus, a estrapolarne un romanzo contorto degno del miglior Kaiser Souze, il claudicante e malvagio Kevin Spacey dei Soliti sospetti, il quale da una serie di piccoli e all’apparenza insignificanti dettagli circostanti, ci aveva costruito intorno una storia degna di essere creduta.
Nel mio caso, per come si erano messe le cose, la faccenda più incredibile era che dopo neanche un mese fossi di nuovo li’, vivo e quasi vegeto, su due piedi come sempre.
E così la novità di quel settembre ventoso fu sostanzialmente una: per la prima volta in dieci anni avevo scritto a Pietro.
La lettera la buttai giù di getto e non la rilessi neppure prima di imbustarla; era esitante ed emozionata come il mio cuore e, a un certo punto della pagina, prendeva una piega strana e iniziava a parlare di noi. Faceva così:
Caro Pietro,
Mi conosci e sai che non sono il tipo da tante moine e sdolcinate dichiarazioni. Lo sai perché sei tu che mi ci hai fatto diventare così, arido come un campo di grano su cui non piove da anni. Ma stavolta e’ diverso. Stavolta e’ giusto che io mi apra, o almeno che apra una piccola fessura da cui far uscire una cosa forse banale: un grazie molto semplice che viene dal profondo del mio cuore.
Forse lo hai fatto perché non potevi esimerti, o forse perché lo sentivi davvero. Forse l’avrei fatto anch’io per te, anzi l’ho proprio sognato che ero io a tirarti fuori dai guai, ma questo non c’entra perché tu l’hai fatto per davvero e adesso io ti dico che non lo scorderò mai.
Sai, ieri sera ero a letto che leggevo dopo tanto tempo e non ho potuto fare a meno di notare una cosa. Ho finito il libro, l’ho chiuso, l’ho messo sul comodino e mi sono addormentato. Non preoccuparti, non sono impazzito, tutt’altro! E non pensare che le conseguenze dell’incidente mi abbiano lasciato strascichi da dire tali idiozie. E’ che per me questo evento apparentemente così banale, ha avuto un significato importante.
Vuol dire che non ho più paura. Che non ho più bisogno di sotterfugi. Che non devo più scappare, soprattutto da me stesso.
Ti ho sempre fatto presente il mio pensiero sulla vita, il mio distinguere gli essere umani tra ambiziosi e non ambiziosi. Era un pensiero sbagliato.
La vera discriminante e’ tra chi e’ sereno, o almeno prova a esserlo qualsiasi cosa gli capiti, e chi vive male a prescindere. Aver visto la morte in faccia mi ha aiutato a capire questa cosa. Che esiste una chiave per aprire la porta della propria serenità e che ognuno ha la sua. Basta solo trovarla questa chiave, ma per farlo, bisogna perlomeno cercarla. E non e’ detto che sia solo una, magari, se si e’ fortunati, sono tante.
Il perdono e’ sicuramente una di queste ed e’ saperlo scovare in una qualche piega del cuore che fa la differenza. Ho capito che la vita e’ troppo breve per perdere tempo con la rabbia, per sprecare energie a correre dietro al rancore. Sono solo ansie che generano paura.
E così ho potuto mettere a fuoco un aspetto fondamentale della mia esistenza: io, come tutti gli altri di questo mondo del resto, giro con il navigatore inserito. Anche se quella sera a spataccarmi ci sono andato io, alla guida della macchina della mia vita non sono io e in realtà non so neppure chi sia esattamente il pilota, se Dio, il destino, la Provvidenza che lancia i dadi, il vento che li direziona, la biro nera con cui ti sto scrivendo o chissà cos’altro. Magari io posso dare qualche indicazione, dire dove mi piacerebbe andare, mettere pure la freccia. Ma non guido io.
Capito questo, il resto e’ più facile. Soprattutto trovare quelle chiavi.
Un abbraccio grande.
Andy.
P.s. Jack mi chiede di Fede. Mi dice che hanno fatto spesso “comunella” nella sala d’aspetto del Rizzoli. Ho visto che alla quinta di andata c’è il Milan al Dall’Ara. Cosa dici, li portiamo se veniamo su?
Mi ripresi dal torpore del ricordo di quelle parole e capii che ero in ritardo. La mia testa era ancora indolenzita, ma ormai il peggio era passato e ci infilai dentro il casco senza troppa cura. Giacomo era scomparso all’orizzonte di una porta chiusa, ma prima di tuffarsi nel suo mondo, si era girato e mi aveva sorriso.
Era quella la chiave di una mattina come centinaia di altre.
Diedi gas e mi rituffai nel traffico intenso di una Roma ancora assonnata.
Tutto scorreva tranquillo, anzi volgeva al bello e John Belushi poteva attendere.
Era settembre e io avevo deciso.